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Sulla riforma della giustizia il @pdnetwork è un “sepolcro imbiancato”

Se un ipocrita, alla falsità, aggiunge l’ostentazione di un’esagerata integrità, si comporta come gli scribi e i farisei che Cristo paragonò ai sepolcri imbiancati, riferendosi all’usanza di rendere visibili le tombe, imbiancandole perché nessuno le toccasse, rendendosi impuro.

Sul tema della riforma della giustizia, leggendo il programma del Partito Democratico, l’analogia a questa locuzione emerge subito tanto da imporne la dovuta critica apofatica.

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I dieci punti, a livello numerico, sono pari a quelli di Forza Italia e sono quasi il doppio di quelli del M5S. Infatti occorre anzitutto impressionare l’elettore, poi non si può essere numericamente da meno del centro-destra ed è opportuno doppiare gli antagonisti per antonomasia, ossia i grillini. Invero i dieci punti del PD sono in realtà solo quattro (vedi infra A-, B-, C- e D-).

A leggere bene i singoli punti del programma capiamo che questa prima ipocrisia si limita solo a dare l’abbrivio a ben altre inarrestabili ipocrisie. Vediamo allora tutti i punti.

  1. Riordino del CSM;
  2. Regime disciplinare unico per tutte le magistrature;
  3. Accesso alla magistratura;
  4. Estensione ADR;
  5. Più conciliazioni davanti al giudice;
  6. Attuare riforma del processo penale;
  7. Riti alternativi più convenienti;
  8. Digitalizzazione penale;
  9. Attuare riforma carceri;
  10. Lotta alle mafie.

A- Anzitutto i primi tre punti si possono ricondurre a uno solo e svelano ben altro: ossia l’apparente tentativo della sinistra di smarcarsi dalla denunciata simbiosi con la magistratura.

Dalle “toghe rosse” anni ’70, alle dozzine di processi contro il competitor Berlusconi, siamo tutti cresciuti in questi anni con l’idea che la sinistra sia andata a braccetto con la magistratura: ora però anche solo l’idea di questo gemellaggio non ripaga più sotto elezioni.

Da qui l’urgenza di porre, prima di ogni altro intervento risolutore dei mali del processo, e addirittura nei primi tre posti del programma sulla giustizia, quello che sembra essere un sonoro attacco ai giudici. Ma, a prescindere se sia o meno giusto, sarà vero ?

Be’, il “Riordino del CSM” appare più come una minaccia politica, benché generica, che una proposta utile. Il “Regime disciplinare unico per tutte le magistrature” potrebbe essere letto, vista la genericità, come un messaggio all’elettore della scelta di una stretta verso i giudici che sbagliano nel processo. Sicuramente così non è, anche perché altrimenti l’averebbero scritto. Infine il generico “Accesso alla magistratura” potrebbe essere letto come messaggio forte di una curata selezione dei candidati ad essere giudici: possiamo solo ipotizzarlo perché, ipocritamente, non viene detto.

Veicolare una riforma della giustizia, dall’alto della supposta e dichiarata integrità, fingendo di attaccare la magistratura, smaschera l’ignoranza e l’ipocrisia di chi propone detta riforma.

La giustizia in realtà è composita. Vi sono le regole del processo, le regole sostanziali e le regole di chi interpreta queste ultime nel processo. Puntare con decisione e in negativo sulla magistratura con i primi tre -pseudo- punti del programma ne chiarisce la portata monca e miope.

Oltretutto chi interpreta quelle regole nel processo non sono solo i giudici, se è vero quanto detto in un saggio scritto dal presidente emerito della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, sul tema dell’indipendenza della magistratura. Si legge infatti, tra l’altro, che “La condivisione della missione di giustizia e della cultura della giurisdizione da parte della magistratura e dell’avvocatura, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne rafforzerebbe l’indipendenza rispetto al potere politico (l’una sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra), ne accrescerebbe l’autorevolezza e il prestigio nella società.

Senza dimenticare quanto affermava Piero Calamandrei (nella prefazione alla seconda edizione del suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”) secondo cui: “Qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni”.

Quindi una riforma che coinvolga tutti gli interpreti, più propositiva che limitativa, sarebbe auspicabile. Meglio, è chiaro, dell’affastellamento dei punti proposti dal PD.

B- I punti 4 e 5 “Estensione ADR” e “Più conciliazioni davanti al giudice” , riassumibili in uno solo, danno l’immagine di un PD che vuole una “Giustizia più veloce” , come recita appunto il titolo del programma.

Peccato che l’intento di rafforzamento di strumenti alternativi al sistema giurisdizionale cozza con la realtà: la maggior parte delle mediazioni falliscono ancor prima di iniziare (la statistica ministeriale lo prova), riducendosi solo ad un costo in più utile a disincentivare chi vuole realmente giustizia.

Tutto ciò in un contesto dove lo Stato centrale ha di fatto mostrato di essere incapace di provvedere alla giustizia dei cittadini ma che, purtroppo, formalmente non l’ha ancora ammesso.

C- I punti dal 6 al 9 (“Attuare riforma del processo penale” – “Riti alternativi più convenienti” – “Digitalizzazione penale” – “Attuare riforma carceri” ), titoli generici e solo programmatici, rappresentano tematiche sempre di moda in campagna elettorale, salvo poi essere disattese o dimenticate dopo il voto. La digitalizzazione penale segue peraltro un percorso già avviato nel campo della giustizia civile dove il prossimo governo di turno, anche a tinta PD, non innoverebbe nulla.

D- Da ultimo, ma non per importanza ed anzi, con metodo “nestoriano” posizionato accuratamente alla fine, non può mancare la rituale “Lotta alle mafie” .

Chiamatela clausola di stile, aforisma, motto, citazione etc. Come fai a non voler lottare contro le mafie ? impossibile, appunto. Non puoi non essere d’accordo.

Ebbene noi cittadini, nelle urne, dovremmo esprimerci col voto proprio in tal senso.

Maurizio Storti

 

 

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Rischio è il mio secondo nome.

Roberto Saviano è stato ascoltato in Tribunale a Napoli come testimone al processo per le minacce ricevute durante l’appello di ”Spartacus” dai boss del clan dei casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine tramite i loro legali. Nel processo in cui è parte offesa, lo scrittore avrebbe subito minacce contenute nell’istanza di remissione di “Spartacus”, letta in aula dall’avvocato Michele Santonastaso, per conto dei boss Iovine e Bidognetti: Saviano veniva indicato come “scrittore al servizio della procura”.

A me Saviano non sta particolarmente simpatico (come personaggio pubblico, non come persona, che non conosco). Pur avendo il mio assoluto appoggio nella vicenda che lo vede “minacciato”  e a prescindere dalla verifica delle minacce articolate in uno scritto difensivo di un avvocato (fatto gravissimo, da radiazione, se fosse vero), non condivido il suo modo di fare.  Sembra crogiolarsi di fronte alla situazione che lo vede costantemente sotto scorta.

Per carità, appare come una situazione delicata. Ma sarà effettivamente così ? I dubbi, che portano poi a mostrare diffidenza verso il personaggio pubblico Saviano, stanno nell’aver visto una sua foto postata su twitter (vedi sotto) in cui dava esattamente le coordinate di dove si trovava (la foto dello svincolo dell’autostrada, l’orario in cui è stata scattata, l’indicazione dell’orario in cui sarebbe arrivato alla destinazione precisa).

Delle due, l’una. O si trova costantemente sotto scorta per il gravissimo rischio alla propria incolumità, ovvero il rischio non è così grave, e ci marcia. Nel 1° caso, oltre ad essere incosciente, rischia di far subire un attentato anche alla propria scorta, lì al suo servizio per proteggerlo. Nel 2° caso abusa di una situazione costruita ad hoc, sfruttando risorse pubbliche: costi che si scaricano sulla collettività.

 

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La giustizia del vicino è sempre più verde.

Durante una nota trasmissione che porta come nome un noto quartiere di Palermo, è intervenuto il famoso economista naturalizzato americano Luttwak il quale, nel commentare la vicenda politica italiana, incidentalmente ha evidenziato la “grave crisi del sistema giudiziario italiano”. È vero. Ha perfettamente ragione e sono il primo a constatare la situazione drammatica del comparto giustizia nostrano. Temo però che il grande economista abbia dato quella valutazione prendendo come termine di paragone il suo paese adottivo, gli USA. Se fosse così la cosa sarebbe singolare. Negli Stati Uniti la giustizia funziona ? A leggere le quotidiane notizie di ingiusti processi, no! È di oggi la notizia, infatti, che un afroamericano (può ancora essere un problema negli USA) è stato liberato dopo 41 anni di “isolamento” peraltro ingiustamente accusato da un manipolo di galeotti i quali hanno poi ritrattato la versione iniziale dei fatti. Liberato, s’intende, non per la ritrattazione, ma perché la sentenza è stata ritenuta nulla, a distanza di 41 anni. Il motivo: questione di procedura. Non c’era nessuna donna nella giuria, e questo è stato ritenuto motivo sufficiente per invalidare la condanna e ordinare un nuovo processo. In buona sostanza è stato necessario quasi mezzo secolo per accorgersi dell’esistenza di un motivo di nullità radicale della pronuncia. Se per voi questo è un sistema giudiziario efficace…

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Hai ragione, ma devi pagare.

Nonostante la riforma del processo civile del 2009, mediante la quale è stato imposto al giudice di porre a carico della parte soccombente l’onere di pagare le spese processuali, salvo casi eccezionali che devono essere motivati, si continua ad assistere alla discutibile compensazione delle spese. Il che equivale a non fare giustizia giacché il costo del processo (cui si aggiunge il costo dei professionisti che vi lavorano) si scaricherà inevitabilmente addosso alla parte totalmente vittoriosa, premiando oltremodo il soccombente, spinto a resistere ad oltranza. Sia ben chiaro, ci può stare la compensazione, ma in ragione della (effettiva) reciproca soccombenza. Assistere invece alla non rifusione delle spese «in dovuta considerazione dell’esistenza di controversie sulle questioni proposte» desta stupore. È come se l’Autorità giurisdizionale, chiamata a rispondere, non avesse una precisa posizione sul contendere; ovvero non riuscisse a dirimere la vertenza neanche con gli indirizzi della Suprema Corte di Cassazione; ancora giustificasse il contenzioso sulla scorta dell’enorme mole di norme (anche dicotomiche tra loro) che il nostro schizofrenico Legislatore ci regala da anni. Se si vuole realmente diminuire il carico della giustizia in Italia, occorre far desistere il debitore incallito. Egli andrà fino in fondo sulla “certezza” dei dubbi interpretativi e nella cronica ambiguità delle pronunce (di recente due sentenze della Cassazione, stessa sezione, a distanza di poche ore l’una dall’altra, hanno statuito sulla medesima vicenda in modo diametralmente opposto).

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