Assicurazione obbligatoria per gli Avvocati.

L’art. 12 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, stabilisce che “1. L’avvocato, l’associazione o la società fra professionisti devono stipulare, autonomamente o anche per il tramite di convenzioni sottoscritte dal CNF, da ordini territoriali, associazioni ed enti previdenziali forensi, polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione, compresa quella per la custodia di documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti. L’avvocato rende noti al cliente gli estremi della propria polizza assicurativa. 2. All’avvocato, all’associazione o alla società tra professionisti è fatto obbligo di stipulare, anche per il tramite delle associazioni e degli enti previdenziali forensi, apposita polizza a copertura degli infortuni derivanti a sé e ai propri collaboratori, dipendenti e praticanti in conseguenza dell’attività svolta nell’esercizio della professione anche fuori dei locali dello studio legale, anche in qualità di sostituto o di collaboratore sterno occasionale. 3. Degli estremi delle polizze assicurative e di ogni loro successiva variazione è data comunicazione al consiglio dell’ordine. 4. La mancata osservanza delle disposizioni previste nel presente articolo costituisce illecito disciplinare. 5. Le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze sono stabiliti e aggiornati ogni cinque anni dal Ministro della giustizia, sentito il CNF”.

La norma predetta si sovrappone, con il carattere della specialità, a quella di cui all’art. 3, comma 5, lett. e), del D. L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella L. 14 settembre 2011, n. 148, avente sempre ad oggetto la assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile e riferita ai professionisti iscritti ad un Ordine Professionale, la cui entrata in vigore è fissata alla data del 13 agosto 2013.
In considerazione del superamento di tale norma dalla lex specialis posta dal richiamato art. 12, deve ritenersi che – per quel che attiene alla entrata in vigore dell’obbligo assicurativo – sia necessario farsi riferimento esclusivamente a tale ultima disposizione, onde l’obbligo in questione dovrà essere osservato allorquando il Ministro della Giustizia avrà emanato il decreto di cui al comma 5.

Tutti sanno che gli avvocati ad oggi non sono tenuti ad avvalersi di una assicurazione professionale. Tutti meno le compagnie assicurative, che inondano le e-mail di proposta a seguito dell’obbligatorietà.

Il CNF sta ancora studiando la soluzione assicurativa migliore per la categoria forense.
Sta ipotizzando, ad esempio, di porre una franchigia di € 1000,00. La cosa mi fa sorridere.

Per un decreto ingiuntivo, di fronte al GdP, liquidano oggi addirittura € 50,00. La liquidazione media in Tribunale, quando non compensano le spese, è di € 2000,00. Come è possibile, quindi, porre una franchigia di tale importo a fronte di quel guadagno ?
È come se l’avvocato riuscisse a sbagliare (e ad essere tenuto ad una responsabilità professionale) per importi pari ai proventi giudizialmente statuiti. Un avvocato, se sbaglia (e sicuramente sbaglia prima o poi: “l’avvocato migliore è quello che sbaglia di meno” si sa), lo farà più spesso per le piccole cose, mentre le situazioni più plateali si conteranno sulla punta delle dita.

Forse allora conviene togliere del tutto la franchigia giacché, se dovesse capitare il grave infortunio professionale, l’avvocato non starebbe chiaramente a guardare la franchigia. Sarebbe compromessa l’intera vicenda, l’intera causa. Il cui valore, mediamente, è ben superiore a € 1000,00 (nella “vecchia” tariffa forense lo scaglione più frequente era quello di € 5.000-25.000).

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Il saluto di un Giudice agli avvocati

Sono stato molto felice oggi, nell’attesa di celebrare l’udienza alla XII sezione (meglio, nell’attesa della controparte costituitasi all’ultimo secondo disponibile), di leggere il saluto di un Giudice rivolto agli avvocati che per anni hanno avuto la fortuna -aggiungo io- di averlo come magistrato in quella sezione.

Segnala il Giudice, tra l’altro, il dispiacere di dover essere costretto a cambiare materia dopo la decennale esperienza maturata. Ed è così: quando ormai sei perfettamente inserito in meccanismo che funziona, sei costretto a lasciare, devi cambiare. E vanifichi quel bagaglio di rapporti umani e professionali fin lì acquisito.

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Il processo suppone la verità, suppone che si creda alla verità.

Quid est processum ? Il processo è la ricerca della verità.

Una verità però processuale, che non potrà mai (o difficilmente potrà) essere sovrapponibile alla verità sostanziale. Per Calamandrei la verità giudiziale era “quel surrogato della verità che è la verosimiglianza” (cfr. Verità e verosimiglianza nel processo civile, 1972).

Una verità che, in perfetta coerenza con il relativismo politico della democrazia, come quella attuale, tende spesso a rimettere il suo accertamento nelle mani del voto popolare, dell’opinione pubblica, quando questa viene strumentalmente coinvolta.

Ma il pubblico, la sua opinione, l’informazione giornalistica (specie televisiva) nel sostituirsi alla figura del giudice, soggetto terzo e quindi fulcro della certezza della verità, pone in essere la negazione stessa del giudizio.

Dal primo esempio di capo politico democratico che in una questione controversa si rivolge al popolo e si attiene alla sua decisione, ne sono passati di anni. Dal Pilato miscredente e non credente nella verità giudiziale, si contano -e si ripetono- nella storia innumerevoli abdicazioni dei giudici a favore del veto, e dell’urlo, popolare.

Dal processo di Gesù in poi, insomma, abbiamo assistito a molti, troppi, giudizi in cui il vincitore celebra sul vinto le conseguenze della volontà plebiscitaria dell’opinione pubblica. E che questa risulti pure facilmente orientabile da chi ne ha interesse, non è cosa da tenere in secondo ordine.

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Il motto del legale del nuovo millennio

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È così. Il miglior legale non è più quello che sbaglia di meno (perché capita che anche il migliore avvocato possa sbagliare), ma è diventato quello che riesce ad evitare le aule di tribunale.
Non è per l’incertezza che regna nelle decisioni dei giudici di merito, o almeno non solo.
Non è neppure per il costante aumento dei costi legati al processo (da ultimo l’aumento della marca per i diritti, passata da €8 a €25), perché chi decide di far causa e la vince, può sperare di recuperare le spese iniziali.
La ragione è di semplice opportunità.
“Iniziare un litigio è come aprire una diga, prima che la lite si esasperi, troncala”.

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Diritto vivente. Ossia se l’opera di agnizione della norma non è di facile riconoscimento.

“…il riconoscimento dell’ineliminabile contributo fornito dalla giurisprudenza all’effettività della norma, nel senso che essa costituisce il formante del diritto vivente, vitalizzando, nell’opera di agnizione della norma, la relazione di tipo concorrenziale tra potere legislativo e potere giudiziario.”

Bellissime parole. Il concetto, però, poteva essere espresso in maniera meno complicata.
La scelta di una scrittura più ricercata nel redigere le sentenze era un’abitudine che avevano alcuni giudici (e a quanto pare, alcuni hanno ancora). Ciò capitava spesso nel passato poiché l’avanzamento in carriera dei magistrati avveniva, tra l’altro, per merito. E quale modo migliore per dimostrare di essere migliori di altri se non quello di scrivere in maniera più complicata possibile le pronunce giurisdizionali ? Ovviamente nella logica che complicato è meglio; articolato corrisponde a maggior profondità; incomprensibile, ai più, significa elitario.

Quando, invece, la semplicità ti rende libero dalle complicazioni.

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La legge è peccato ?

“Legge è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto. E un tempo io vivevo senza la Legge ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita e io sono morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. Il peccato infatti, presa l’occasione, mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.”

(discorso di San Paolo sui rapporti tra legge e peccato nella Lettera ai Romani, 7, 7)

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Colleganza, questa sconosciuta.

Una vecchia canzone di Niccolò Fabi, intitolata “Dica”, faceva notare come quell’espressione, in apparenza cortese, celasse dietro un distacco (con chiaro taglio ipocrito) di chi veniva infastidito dall’altrui comportamento.
Tra noi avvocati non ci diamo del “lei” (a meno che non si voglia prendere le distanze dal Collega), e non ci diciamo “Dica”: però ci poniamo spesso in rapporto di conflittualità, o meglio, ci sono colleghi che si pongono in evidente distacco e poca partecipazione verso il prossimo professionista.
È il caso di questa mattina, in Viale Giulio Cesare.
Mi capita sporadicamente di venire all’alba (anzi, oggi anche prima) per riuscire a fare almeno una 20na di cose in Tribunale, tutte in una mattinata. Attività rigorosamente divise in almeno un’altra 20na di file. Al mio arrivo apprendo che sono, tra l’altro, quarto alle notifiche della civile, dietro una bella ragazza alla quale chiedo di potermi allontanare visto che la stessa sarebbe rimasta lì: lei mi suggerisce di rimanere e aspettare il prossimo per “evitare problemi con la fila”.
Ecco. Il punto sta qui. Dietro a quel suggerimento altruistico si cela il fastidio di dover tenere la fila al posto del Collega. Comprensibile, per carità. Ma perché non essere schietti e sinceri ?
Quell’argomentazione, infatti, non sta in piedi e al sottoscritto, purtroppo esperto in attività procuratoria, dà pure fastidio: tra Colleghi, infatti, esiste il c.d. principio di colleganza che impone agli avvocati di collaborare tra loro. Pertanto non ci sarebbero stati problemi con la fila, o almeno se fossero nati si sarebbero risolti.
Rimanere o meno in una fila, insomma, non dovrebbe creare litigi tra gli avvocati. Chi pone il problema, semplicemente, non vuole farti un favore. Ma che allora lo dica.

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Rischio è il mio secondo nome.

Roberto Saviano è stato ascoltato in Tribunale a Napoli come testimone al processo per le minacce ricevute durante l’appello di ”Spartacus” dai boss del clan dei casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine tramite i loro legali. Nel processo in cui è parte offesa, lo scrittore avrebbe subito minacce contenute nell’istanza di remissione di “Spartacus”, letta in aula dall’avvocato Michele Santonastaso, per conto dei boss Iovine e Bidognetti: Saviano veniva indicato come “scrittore al servizio della procura”.

A me Saviano non sta particolarmente simpatico (come personaggio pubblico, non come persona, che non conosco). Pur avendo il mio assoluto appoggio nella vicenda che lo vede “minacciato”  e a prescindere dalla verifica delle minacce articolate in uno scritto difensivo di un avvocato (fatto gravissimo, da radiazione, se fosse vero), non condivido il suo modo di fare.  Sembra crogiolarsi di fronte alla situazione che lo vede costantemente sotto scorta.

Per carità, appare come una situazione delicata. Ma sarà effettivamente così ? I dubbi, che portano poi a mostrare diffidenza verso il personaggio pubblico Saviano, stanno nell’aver visto una sua foto postata su twitter (vedi sotto) in cui dava esattamente le coordinate di dove si trovava (la foto dello svincolo dell’autostrada, l’orario in cui è stata scattata, l’indicazione dell’orario in cui sarebbe arrivato alla destinazione precisa).

Delle due, l’una. O si trova costantemente sotto scorta per il gravissimo rischio alla propria incolumità, ovvero il rischio non è così grave, e ci marcia. Nel 1° caso, oltre ad essere incosciente, rischia di far subire un attentato anche alla propria scorta, lì al suo servizio per proteggerlo. Nel 2° caso abusa di una situazione costruita ad hoc, sfruttando risorse pubbliche: costi che si scaricano sulla collettività.

 

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Ogni Consesso di livello è politicizzato.

L’episodio di Crimi, il quale posta su Facebook un commento sprezzante contro Berlusconi durante la seduta della Giunta per le elezioni del Senato riunita per la decadenza del senatore, è stato mal digerito da esponenti del PDL perché, a detta loro, sarebbero state violate le regole sull’imparzialità.
Per quanto poco opportuno sia stato il gesto e per quanto da biasimare (per la poca serietà e per la volgarità) sia il parlamentare in questione che lo ha commesso, non vedo come una battuta postata su internet fatta da un antagonista di Berlusconi avrebbe potuto compromettere il giudizio della Giunta, visto che si trattava di una Giunta politica.
Fa bene chi ricorda che il principio di terzietà riguarda ben altri organi (giurisdizionali).
Vicenda, questa, che dà lo spunto per riflettere sul fenomeno della politicizzazione delle Corti (di un livello, ci tengo a precisare). E di una in particolare: la Corte Costituzionale.
Questa si compone in parte da membri scelti dal Presidente della Repubblica (soggetto politico), altri dal Parlamento (dove ci sono i politici), altri sono espressione della magistratura (politicizzata, a quei livelli, a sentire MD), civile, contabile e amministrativa.
Peccato che la Corte Costituzionale non dovrebbe essere ricollegabile a posizioni politiche: la politica è scelta di parte, discrezionalità, opinabilità, opportunismo dell’occorrenza. La verifica delle norme al vaglio della carta costituzionale non dovrebbe essere condizionata da valutazioni di convenienza (di uno schieramento o dell’altro, di ideologia opposta).
Bene, allora, fece il parlamentare Togliatti che etichettò la Corte Costituzionale come una “bizzarria” in quanto “organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzioni del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del parlamento e della democrazia, per essere giudici”. Pensato come tecnico e svincolato alla politica, il Giudice delle leggi ne è stato da questa inglobato. Perché a certi livelli non puoi operare se non sei politicizzato.

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La giustizia del vicino è sempre più verde.

Durante una nota trasmissione che porta come nome un noto quartiere di Palermo, è intervenuto il famoso economista naturalizzato americano Luttwak il quale, nel commentare la vicenda politica italiana, incidentalmente ha evidenziato la “grave crisi del sistema giudiziario italiano”. È vero. Ha perfettamente ragione e sono il primo a constatare la situazione drammatica del comparto giustizia nostrano. Temo però che il grande economista abbia dato quella valutazione prendendo come termine di paragone il suo paese adottivo, gli USA. Se fosse così la cosa sarebbe singolare. Negli Stati Uniti la giustizia funziona ? A leggere le quotidiane notizie di ingiusti processi, no! È di oggi la notizia, infatti, che un afroamericano (può ancora essere un problema negli USA) è stato liberato dopo 41 anni di “isolamento” peraltro ingiustamente accusato da un manipolo di galeotti i quali hanno poi ritrattato la versione iniziale dei fatti. Liberato, s’intende, non per la ritrattazione, ma perché la sentenza è stata ritenuta nulla, a distanza di 41 anni. Il motivo: questione di procedura. Non c’era nessuna donna nella giuria, e questo è stato ritenuto motivo sufficiente per invalidare la condanna e ordinare un nuovo processo. In buona sostanza è stato necessario quasi mezzo secolo per accorgersi dell’esistenza di un motivo di nullità radicale della pronuncia. Se per voi questo è un sistema giudiziario efficace…

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