Il processo suppone la verità, suppone che si creda alla verità.

Quid est processum ? Il processo è la ricerca della verità.

Una verità però processuale, che non potrà mai (o difficilmente potrà) essere sovrapponibile alla verità sostanziale. Per Calamandrei la verità giudiziale era “quel surrogato della verità che è la verosimiglianza” (cfr. Verità e verosimiglianza nel processo civile, 1972).

Una verità che, in perfetta coerenza con il relativismo politico della democrazia, come quella attuale, tende spesso a rimettere il suo accertamento nelle mani del voto popolare, dell’opinione pubblica, quando questa viene strumentalmente coinvolta.

Ma il pubblico, la sua opinione, l’informazione giornalistica (specie televisiva) nel sostituirsi alla figura del giudice, soggetto terzo e quindi fulcro della certezza della verità, pone in essere la negazione stessa del giudizio.

Dal primo esempio di capo politico democratico che in una questione controversa si rivolge al popolo e si attiene alla sua decisione, ne sono passati di anni. Dal Pilato miscredente e non credente nella verità giudiziale, si contano -e si ripetono- nella storia innumerevoli abdicazioni dei giudici a favore del veto, e dell’urlo, popolare.

Dal processo di Gesù in poi, insomma, abbiamo assistito a molti, troppi, giudizi in cui il vincitore celebra sul vinto le conseguenze della volontà plebiscitaria dell’opinione pubblica. E che questa risulti pure facilmente orientabile da chi ne ha interesse, non è cosa da tenere in secondo ordine.

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